Non sarebbe corretto dire che la pizza, così come la conosciamo oggi, non sia nata a Napoli. Tuttavia, sarebbe altrettanto scorretto negare che prima della nostra pizza esistevano delle pietanze molto simili, che oggi potremmo considerare come i veri antenati di questo piatto così semplice eppure così ricco di sapore.
Voglio tornare con voi indietro nel tempo fino al periodo degli Egizi: come già ho spiegato nell’articolo “Il lievito madre: il vero segreto di una pizza genuina” il vero antenato della pizza è il pane azzimo, che fin dal 6.000 a.C. era diffuso in tutta la Mesopotamia e nei territori compresi tra i corsi dei fiumi Tigri, Nilo ed Eufrate. Il pane azzimo è un semplicissimo impasto di farina e acqua, senza nessun’altra aggiunta, che veniva cotto al forno: una pietanza poverissima e veloce da preparare, che per questo motivo ha una forte valenza simbolica in termini biblici, ricordando l’Esodo ebraico. È dal pane azzimo, però, che intorno al 4.000 a.C. è nata la prima vera antenata della pizza: qualche fornaio eccessivamente distratto, infatti, lasciò un impasto di pane azzimo non cotto sotto il sole, sottoponendolo alle alte temperature del deserto. In maniera del tutto inaspettata, questo impasto iniziò a gonfiarsi e a cambiare aspetto. Gli Egizi studiarono a lungo questa reazione e scoprirono che quell’impasto, se non veniva cotto in tempi brevi tendeva a diventare immangiabile, ma se veniva cotto, diventava ancora più fragrante e saporito del pane azzimo. Quello era l’antesignano del lievito madre ma anche in Europa, quasi contemporaneamente, le popolazioni facevano la stessa scoperta. È stato recentemente stabilito, infatti, che il popolo nuragico della Sardegna, circa 5.000 anni fa, aveva già acquisito le basi per la panificazione degli impasti lievitati, dimostrando una cultura nettamente più progredita rispetto a quella Egizia, ancora ferma al pane azzimo.
Trattandosi di un prodotto molto semplice e piuttosto povero, l’impasto di farina e di acqua è sempre stato diffuso, anche con utilizzi molto particolari rispetto a quelli che possiamo immaginare oggi. Nel I secolo a.C., per esempio, i popoli italici utilizzavano dei dischi di pane azzimo come sorta di piatti su cui servire la portata: non è ben chiaro se questi dischi venissero consumati o se, invece, venissero poi buttati via, ma già si stava creando una concezione di panificazione con una precisa conformazione e lavorazione, ben più raffinata rispetto all’impasto grezzo cotto nel forno. L’utilizzo dei piatti di pane era consuetudine in tutto il bacino mediterraneo ed è da queste preparazioni che sono nati alcuni dei prodotti ancora oggi consumati, basti pensare alla piadina romagnola, alla pita greca oppure alla coca spagnola. Mi piace, inoltre, sottolineare che la farina di grano non era l’unica utilizzata per la realizzazione di questi dischi di pane: il grano era all’epoca un prodotto molto costoso, il cui utilizzo era spesso razionato. Potevano permetterselo solo poche famiglie facoltose mentre, le altre, dovevano accontentarsi di farine meno pregiate come quella di farro, la più valida alternativa al grano.
Fino al VI secolo d.C., quindi, i dischi di pane erano considerati più come alimento di supporto che altro, senza una vera valenza nutrizionale se non per i ceti meno abbienti, che spesso non potevano fare altro che impastare farina e acqua per portare in tavola il cibo per la loro famiglia. Questo disco di pane, d’altronde, costava poco e dava a lungo un gran senso di sazietà ed era quindi ideale per gran parte della popolazione, anche perché quando diventava secco, era sufficiente inumidirlo per renderlo nuovamente commestibile. Si dice che i dischi di pane erano molto diffusi sulle navi delle flotte marittime del nostro Paese, in particolare nella zona amalfitana, dove erano il cibo per eccellenza per la ciurma. Forse è proprio a bordo di una di quelle navi che qualcuno ebbe la geniale intuizione che poi innescò il processo di crescita di questo prodotto.
Una prima evoluzione significativa di questo prodotto si ha intorno al 600, ovviamente nel Sud Italia, dove la fantasia e la creatività sono da sempre insiti nella cultura di questi popoli. Ho sempre amato coloro che sanno fare di necessità virtù e, su questo, i popoli meridionali della penisola hanno tantissimo da insegnarci: nell’area partenopea, per dare un po’ più di sapore a questo disco di pane, si pensò di realizzare una pietanza condita con aglio, strutto e sale grosso nell’impasto. Veniva chiamata mastunicola, termine derivato da vasunicola, il basilico in napoletano, perché nella versione più appetitosa questa pietanza antesignana della focaccia era arricchita con caciocavallo e, appunto, basilico.
Durante i secoli successivi furono tantissime le varianti sul tema, con alcuni panettieri e fornai che tentarono addirittura di proporre delle vere e proprie antenate della nostra pizza. Focacce condite con salsa e pomodori che però non riuscirono a conquistare il cuore della popolazione più abbiente, coloro che potevano permettersi ben altre pietanze più rinomate. La mastunicola, la focaccia e tutte le varianti erano considerate semplicemente un cibo plebeo, quindi messe al bando dalle tavole dei più ricchi. Tutto questo accadeva almeno fino al 1700, quando Ferdinando I di Borbone sdoganò per la prima volta la pizza alla corte di Napoli. La sua tempra e il suo carattere ribelle erano noti a tutti: la notte, di nascosto, amava frequentare le taverne del suo regno dove poteva gustare l’ottima pizza di cui andava ghiotto. Cercò svariate volte di introdurla nel menù di corte ma gli venne sempre rifiutato in ottemperanza ad un’etichetta e ad una storia che non poteva essere sradicata con l’introduzione di un cibo così povero. Ferdinando I le provò tutte per portare la pizza a corte e, a un certo punto, si convinse che l’unico modo era quello di farla assaggiare alla sua giovane moglie, la regina Maria Carolina, austriaca, che come tutti i nobili a quel tempo odiava la pizza. Certo non poteva portarla con sé nelle taverne, spesso losche, che lui amava frequentare e così fece realizzare un forno a Capodimonte, chiamò il miglior pizzaiuolo di Napoli che realizzò le pizze per la regina e la sua corte. Fu un vero successo.
Solo nel 1889 la mastunicola diventò la Pizza alla Margherita in onore della Regina Margherita di Savoia: anche quella volta, i pizzaioli chiamati dai regnanti prepararono le loro pizze nel vecchio forno fatto realizzare da Ferdinando I di Borbone. Alla regina vennero proposte sia la classica versione della mastunicola con caciocavallo e basilico sia quella con pomodoro, mozzarella e basilico e fu quest’ultima a conquistare il suo cuore, sia per l’omaggio alla bandiera italiana che per il suo gusto delicato.
Ecco la vera storia del mito della pizza, un racconto che io amo e che tutti dovrebbero conoscere per apprezzare fino in fondo questo piatto così straordinariamente italiano, proprio per la sua natura.